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18 apr 2007

Bakhyt Kenzeev

1.

C’è una stella in cielo, e dei fili in terra.
Da Dio - lacrime e sudore.
Corri, notte mia, dove non si sa
sui raggi delle faccende postali.
Ed erra per la piazza, piange invano
come un angelo in un grigio tabarro –
scende verso l’approdo, cammina dentro di me
e si terge la gola con acqua ghiacciata.
Ah! remoto mostricciattolo della famiglia celeste,
dove chiama e perché?
A contare le stelle nel nero ruscello,
dove galleggia un pesce morto?
A lungo ancora, obbedendo a lui,
in cambio della sua arte
invano cerchi di smuovere la rozza bisaccia,
cresciuta nella terra, -
ed ancora si sveglia, povero e nudo,
là dove Dio ha steso le mani,
dove la città si erge sui colli, sulle onde
dei monti digrignati e rocciosi.

2.

Usciamo - la mezzanotte è con noi.
I fanali furtivamente quasi
si disperdono in cerchi
nel piccolo centro della città.
Basta discutere con il destino,
bere il verde vino,
in alto, di molte finestre
ne arde fioca una sola.
E’ la che, felicemente intrigato
dall’ombra della luna sul muro,
silenzioso veglia il bracciante
sul lenzuolo gualcito?
Scaricatore della morte smisurata,
è solo a lavorare
nell’oceano di stelle, che scorrono
dall’orizzonte e dovunque.
Fruscio di foglie nel vicolo,
odore di pane e di terra.
S’ode lungo ed echeggiante soltanto
il sussurro lontano del Signore.
Una voce annebbiata senza ragione,
il penultimo capitolo,
soltanto le parole sono indecifrabili,
illeggibili parole.

3.

Un’altezza sì stupefacente,
che si ha voglia di tirare un sospiro: fermati,
attimo, adorato, ribelle...
Ma raffredda la gola il dolce terrore,
ed uno strano sparviero con una colomba tra gli artigli
sfreccia lungo l’abisso dell’aria,
e si gonfiano in cielo le nubi,
come il pane in una scodella di latte,
ed i monti, agghiacciando, raggiungono
se non le stelle, quel mortifero strato
che il mondo divide in vuoto e pieno.
Tace la terra, e sotto di sé i morti.
Ed alla luce socchiude gli occhi, incredulo
l’ignoto viandante, sapendo che posto non hanno
nelle steppe né il taumaturgo giudeo,
né l’ellèna con in bocca una moneta.
Ed i monti si svelano nudi,
mugghiando, gridando, senza controllo,
come se lo spirito del metallo d’argento
su di loro puntasse orme di sangue,
come se il mercurio dello strapiombo roccioso
fosse pronto a scorrere, scorrere senza fine,
lino a che la fidanzata dallo scuro volto
per strada non si tolga la coltre.
Ardeva un falò, io mi ci scaldavo le dita, e rimiravo i cieli deserti,
e sfrecciavo dentro di loro, e singhiozzavo in volo
attraverso le nuvole, l’irreversibile arsura,
sfogliando il libro sull’amaro sapore della steppa
nella sua russa rilegatura balbuziente.


(Traduzioni dal russo da Maria Cicognani Wolkonsky)

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scritto da anila resuli | Comments (0)


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