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7 mag 2007

Felipe García Quintero

Gli uccelli affondano i loro becchi nella mia carne.

Si siedono sui palmi delle mie mani. Bevono acqua dei miei
occhi e la mia lingua acquietano. La felicità di essere il loro cibo
non mi raggiunge.

La mia gloria sarà qualcos’altro, non il cielo.


(1993)


*


Viaggio in un treno di ventuno carrozze guidato dai miei morti. Io
osservo attraverso il vetro infranto della finestra una battaglia di dure
farfalle nel cielo bruciato dei miei cinque anni.

Comunico con gli alberi battuti dal tempo che spariscono nei miei occhi; gli
unici che non hanno strada, con gli uccelli che già sono memorie
del vento.

Ugualmente non conosco che terra sia questa.

(1994)


*


Poco a poco il silenzio sta riempiendo la mia anima di rumori,
con i passi spaventosi come una bestia selvaggia inseguita dal tremito del
cuore che affila la sua lama.

È in questa voce cieca che mantiene i miei occhi aperti.

E – dentro me – io penso a quell’altro cielo che mi aspetta
fuori dalla casa: il mio cielo, quello che inventa la pioggia
all’angolo della via.

Un cielo di acque ripugnanti. Della luna annegata, nuvoloso, conservato dal
fango dalla mano del sonno.

Il mio cielo di acque inquietanti, solo nella tua carne fa sì che i miei denti caduti
splendano di più.

Il cielo inatteso della ruggine invernale, viene e riempie le mie mani vuote di una
persona cieca senza sfiorare con il tuo corpo. Il mio cielo di un uccello
senza cielo. Cielo dall’acqua di ventre.

Il mio cielo, in profondità come pietra.

(1996)


*


La mia casa, come il deserto, non ha tetto o porta, soltanto una bocca.

La mia casa, come la pietra, non possiede travi o
fondamenta, solo una mano serrata la tiene su.

Ho costruito questa casa togliendo mattoni e arrendendo
le mie ossa al vuoto restante.

La casa è scura come la mia voce nei suoi corridoi.

Io vivo nella casa in cui cammino. Quello che inseguo
e perseguo come una larva dopo che la carne ammali.

Ad ogni pianto sorge in su; con ogni silenzio la distruggo.

(1996)


*


Pietra


1.

Sii un mio pensiero.

La fermezza del mio mutismo latente
non l’ombra del mio corpo, la sua ferita.

Io, il tuo possesso, il mio ospite
nella voce, la stanza vuota di ogni osso.



2.

Avvicinando la miseria
ed il perpetuo vagabondare del silenzio.

Pietra

Felicità sconfitta o mutismo cantato?

Nel pugno determinato delle lacrime
quanto c’è là di te, sempre con me.


3.

Sciocco mio cielo di ogni pianto
popoli l’oscurità della mia infanzia.

La voce nel silenzio ti tocca
il vuoto ti acclama
la solitudine t’include.

Vigile sereno e nascosto di ogni morte.


4.

Pietra

Sii il volo della mia caduta.

(2003)



(Traduzioni di Anila Resuli dall'inglese)


*


Felipe García Quintero (Colombia, 1973) ha studiato Filologia Spagnola in Spagna, Studi Culturali nell'Ecuador e Letteratura e Lingua Spagnola in Colombia. Ha pubblicato quattro raccolte di poesia e un saggio sul poeta colombiano Rafael Maya. Ha ricevuto parecchi premi e borse di studio in Colombia, in Cile ed in Spagna. È redattore della rivista di poesia Ophelia e professore di giornalismo nel Università del Cauca, in Popayán, la sua città natale.

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scritto da anila resuli | Comments (0)


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